Alla fine a farci consumare meno ci ha pensato il mercato, non la coscienza ecologica.
L'aumento dei prezzi della benzina ha portato alla diminuzione dei consumi (anche se le autostrade nel week end le vedo sempre piene).
Di petrolio ce ne sarà anche ancora in abbondanza ma a questi prezzi il mancato aumento della produzione qualche dubbio me lo pone.
Il vero grande fatto positivo è che adesso tutti gli investimenti su energie alternative, sistemi di trazione più efficienti, risparmio energetico ecc diventano più remunerativi.
Potrebbe essere un punto di svolta e una grande opportunità per il futuro.
Chi saranno le prossime sette sorelle?
martedì 22 luglio 2008
Web 2.0
lunedì 21 luglio 2008
Tengo famiglia
Una delle cose più criticate dell'industria italiana è lo stretto legame famiglia/azienda.
Al di là del fatto che il nostro Presidente ha un'azienda che si chiama come lei, guidata da papino e fratello, lasciatemi fare qualche considerazione a ruota libera.
Intanto è un falso mito che sia una situazione italiana, anche in USA, patria del capitalismo rampante e diffuso moltissime aziende sono ancora prettamente possedute da una famiglia. Ma anche i Europa i casi non mancano. BMW non ha il nome di una famiglia ma..., c'è un Sig. Porsche ecc ecc.
L'impresa famigliare ha pregi e difetti.
Il pregio principale a mio parere è la possibilità di non guardare il breve termine (salvo le quotate, ma anche lì non è detto) ma di poter sviluppare strategie di medio e lungo termine.
Se la famiglia è illuminata non si va a caccia di profitto a breve ma si cerca di valorizzare l'asset azienda sul medio termine.
Tutti sappiamo di aziende "manageriali" dove manager autoreferenziali per prendere i bonus drogano la crescita, intanto saranno probabilmente già andati a far danni da altre parti quando i problemi arriveranno.
Certo anche Parmalat era famigliare, ma lì si parla di truffatori, non di imprenditori.
La visione a breve è a mio parere il padre dell'attuale crisi, ma qui il discorso si fa ampio e magari lo riprenderò.
Per contro l'azienda famigliare, soprattutto in Italia, ha due vincoli che, ove non superati, portano ad uno spreco di opportunità.
La prima è la sindrome del controllo.
Mi trovo tantissimi colleghi che preferiscono avere il 100% di un'aziendina che una quota di una azienda più grande. La mitica sindrome del 51%.
Mania di controllare tutto e considerare l'azienda come un figlio (o moglie o fidanzata...).
Spesso se la famiglia non ha le risorse per sostenere la crescita quindi o bara (vedi Parmalat) uccidendo il bimbo o limita la crescita per mantenere il controllo.
La seconda è la gestione manageriale.
Non sempre la famiglia è in grado di sfornare delle professionalità adeguate ai tempi e alle esigenze dell'azienda. E non sempre i padri hanno la capacità di capire che il figlio/a è inadeguato a gestire l'azienda.
Conosco padri che imperterriti hanno lasciato la gestione ai figli che si sono dimostrati inadeguati (compreso Romiti per intenderci).
Quasi nell'ambito della truffa va inquadrata poi la commistione tra beni e spese aziendali e quelle famigliari, un esempio recente è il buon Cambi che faceva vita alla grande con costi a carico azienda, ma ci sono moltissimi, che magari con costi minori, lo fanno.
Tralascio qui gli stili manageriali (magari ne riparliamo)
Quali sono le Vostre idee sulle aziende di famiglia italiane?
Al di là del fatto che il nostro Presidente ha un'azienda che si chiama come lei, guidata da papino e fratello, lasciatemi fare qualche considerazione a ruota libera.
Intanto è un falso mito che sia una situazione italiana, anche in USA, patria del capitalismo rampante e diffuso moltissime aziende sono ancora prettamente possedute da una famiglia. Ma anche i Europa i casi non mancano. BMW non ha il nome di una famiglia ma..., c'è un Sig. Porsche ecc ecc.
L'impresa famigliare ha pregi e difetti.
Il pregio principale a mio parere è la possibilità di non guardare il breve termine (salvo le quotate, ma anche lì non è detto) ma di poter sviluppare strategie di medio e lungo termine.
Se la famiglia è illuminata non si va a caccia di profitto a breve ma si cerca di valorizzare l'asset azienda sul medio termine.
Tutti sappiamo di aziende "manageriali" dove manager autoreferenziali per prendere i bonus drogano la crescita, intanto saranno probabilmente già andati a far danni da altre parti quando i problemi arriveranno.
Certo anche Parmalat era famigliare, ma lì si parla di truffatori, non di imprenditori.
La visione a breve è a mio parere il padre dell'attuale crisi, ma qui il discorso si fa ampio e magari lo riprenderò.
Per contro l'azienda famigliare, soprattutto in Italia, ha due vincoli che, ove non superati, portano ad uno spreco di opportunità.
La prima è la sindrome del controllo.
Mi trovo tantissimi colleghi che preferiscono avere il 100% di un'aziendina che una quota di una azienda più grande. La mitica sindrome del 51%.
Mania di controllare tutto e considerare l'azienda come un figlio (o moglie o fidanzata...).
Spesso se la famiglia non ha le risorse per sostenere la crescita quindi o bara (vedi Parmalat) uccidendo il bimbo o limita la crescita per mantenere il controllo.
La seconda è la gestione manageriale.
Non sempre la famiglia è in grado di sfornare delle professionalità adeguate ai tempi e alle esigenze dell'azienda. E non sempre i padri hanno la capacità di capire che il figlio/a è inadeguato a gestire l'azienda.
Conosco padri che imperterriti hanno lasciato la gestione ai figli che si sono dimostrati inadeguati (compreso Romiti per intenderci).
Quasi nell'ambito della truffa va inquadrata poi la commistione tra beni e spese aziendali e quelle famigliari, un esempio recente è il buon Cambi che faceva vita alla grande con costi a carico azienda, ma ci sono moltissimi, che magari con costi minori, lo fanno.
Tralascio qui gli stili manageriali (magari ne riparliamo)
Quali sono le Vostre idee sulle aziende di famiglia italiane?
martedì 15 luglio 2008
Borsa
domenica 13 luglio 2008
Immagine 2
sabato 12 luglio 2008
Immagine
A volte ci si dimentica che le aziende non sono solo PR e marketing.
PS. A proposito, io questa pagina la cancellerei.
Evidentemente la costruzione del team manageriale non ha avuto così successo.
PS. A proposito, io questa pagina la cancellerei.
Evidentemente la costruzione del team manageriale non ha avuto così successo.
venerdì 11 luglio 2008
Internazionalizzazione
Non ho mai creduto molto nell'internazionalizzazione da prezzo.
Personalmente, escludendo i grandi gruppi per i quali il discorso è diverso, ho sempre pensato che andare ad aprire fabbriche in certi paesi solo perché la mano d'opera costa poco o nulla non è una buona strategia.
Certo, sono un metalmeccanico, per noi la mano d'opera ha una incidenza media, se fossi nel tessile o in certe lavorazioni dove è quasi solo mano d'opera probabilmente ragionerei in modo diverso.
Ma troppo spesso a mio parere ci sono stati progetti affrettati, senza considerarne la complessità.
Intanto va studiata la produttività e quindi il costo unitario per prodotto. Ho visitato fabbriche in molti paesi del mondo e sarà vero che un operaio indiano guadagna un decimo o un ventesimo di uno nostro, ma produce ad una velocità irrisoria. Quindi se costa un ventesimo e produce un decimo i conti già cambiano.
Poi facciamo un gran parlare di "sistema paese" e molti di coloro che sono andati nei paesi dell'est a volte si sono trovati problemi per noi superati, come ad esempio la continuità della fornitura di corrente elettrica o il funzionamento della logistica di trasporto.
Ci sono moltissimi casi di progetti di successo di internazionalizzazione ma anche moltissimi fallimenti. So che molti stanno tornando a casa dopo l'ubriacatura da est europeo. Non parliamo di Cina dove ormai chi parte è in ritardo.
Senza contare le note difficoltà di management, lingua, cultura spesso insormontabili per una piccola impresa.
L'internazionalizzazione a mio modo di vedere "sana" è quella di andare a produrre dove c'è il mercato, per avere maggiore servizio e per avere la possibilità di personalizzare i prodotti secondo il mercato.
Allora ok andare a produrre in Cina per servire il mercato cinese e l'Asia, e nel contempo magari riesportare anche certi prodotti. Ma non solo per riesportare.
Una mia vecchia idea è quella di arrivare ad avere quattro fabbriche, una per continente, nei nostri principali mercati per servire anche le nazioni limitrofe.
Non so se lo farò mai.
Personalmente, escludendo i grandi gruppi per i quali il discorso è diverso, ho sempre pensato che andare ad aprire fabbriche in certi paesi solo perché la mano d'opera costa poco o nulla non è una buona strategia.
Certo, sono un metalmeccanico, per noi la mano d'opera ha una incidenza media, se fossi nel tessile o in certe lavorazioni dove è quasi solo mano d'opera probabilmente ragionerei in modo diverso.
Ma troppo spesso a mio parere ci sono stati progetti affrettati, senza considerarne la complessità.
Intanto va studiata la produttività e quindi il costo unitario per prodotto. Ho visitato fabbriche in molti paesi del mondo e sarà vero che un operaio indiano guadagna un decimo o un ventesimo di uno nostro, ma produce ad una velocità irrisoria. Quindi se costa un ventesimo e produce un decimo i conti già cambiano.
Poi facciamo un gran parlare di "sistema paese" e molti di coloro che sono andati nei paesi dell'est a volte si sono trovati problemi per noi superati, come ad esempio la continuità della fornitura di corrente elettrica o il funzionamento della logistica di trasporto.
Ci sono moltissimi casi di progetti di successo di internazionalizzazione ma anche moltissimi fallimenti. So che molti stanno tornando a casa dopo l'ubriacatura da est europeo. Non parliamo di Cina dove ormai chi parte è in ritardo.
Senza contare le note difficoltà di management, lingua, cultura spesso insormontabili per una piccola impresa.
L'internazionalizzazione a mio modo di vedere "sana" è quella di andare a produrre dove c'è il mercato, per avere maggiore servizio e per avere la possibilità di personalizzare i prodotti secondo il mercato.
Allora ok andare a produrre in Cina per servire il mercato cinese e l'Asia, e nel contempo magari riesportare anche certi prodotti. Ma non solo per riesportare.
Una mia vecchia idea è quella di arrivare ad avere quattro fabbriche, una per continente, nei nostri principali mercati per servire anche le nazioni limitrofe.
Non so se lo farò mai.
lunedì 7 luglio 2008
Low cost
Leggo sul Sole 24 ore di sabato che esistono ancora in Italia ben 4.808 alberghi ad una stella.
Molti più di quanti pensassi.
Molti più di quanti pensassi.
Ma cosa diavolo è il marketing?
Un mostro si aggira tra le piccole imprese.
Lo chiamano marketing ma nessuno sa davvero cosa sia.
Parlate con un piccolo imprenditore e per tale parola ognuno vi darà la sua definizione.
Farsi un giro su wikipedia certo non aiuta, anche lì si parte con Diverse sono le definizioni possibili del marketing.
Ma a parte la definizione purtroppo il marketing è spesso uno sconosciuto nei fatti nelle piccole aziende.
Normalmente si occupano di prodotto le vendite o i tecnici (e il massimo del minimo è quando se ne occupano i tecnici che vogliono fare anche i venditori).
Per le vendite quello che conta è il prezzo, prima di tutto il prezzo e poi che sia fatto come il leader di mercato.
Per i tecnici ciò che conta è che le soluzioni tecniche siano innovative, contenga l'invenzione, il virtuosismo o comunque un qualcosa che porta in giro la dimostrazione della bravura del tecnico.
Certo, magari estremizzo un po', ma non dite che non vi riconoscete nella cosa.
E il cliente? al cliente chi ci pensa?
Ecco, appunto, il marketing. Che non c'è.
E allora ci si trova con prodotti che fanno fatica a trovare spazio nel mercato.
Con i tecnici che ti dicono che intanto quelli lì (i clienti) non capiscono niente, che lo sanno loro come va fatto quel prodotto lì.
Con i venditori che ti dicono che il prezzo è troppo caro, che c'è tanta concorrenza e i cinesi, e i rumeni ecc ecc
E invece da cliente ti trovi davanti a cose che ti fanno chiedere "ma han provato ad usarlo?".
Ecco, senza andare poi troppo sul difficile, che a quello pensano gli intellettuali i professori universitari e i colti; per una piccola azienda un paio di azioni di marketing facili facili.
1 - provate ad usare i vostri prodotti e a farli usare da un amico che non ne sa nulla
2 - entrate in un negozio (o a fare una richiesta alla vostra azienda) in forma anonima e provate a comperare il vostro prodotto
Scoprirete un mondo diverso.
E magari comincerete a capire cosa vuol dire marketing.
Lo chiamano marketing ma nessuno sa davvero cosa sia.
Parlate con un piccolo imprenditore e per tale parola ognuno vi darà la sua definizione.
Farsi un giro su wikipedia certo non aiuta, anche lì si parte con Diverse sono le definizioni possibili del marketing.
Ma a parte la definizione purtroppo il marketing è spesso uno sconosciuto nei fatti nelle piccole aziende.
Normalmente si occupano di prodotto le vendite o i tecnici (e il massimo del minimo è quando se ne occupano i tecnici che vogliono fare anche i venditori).
Per le vendite quello che conta è il prezzo, prima di tutto il prezzo e poi che sia fatto come il leader di mercato.
Per i tecnici ciò che conta è che le soluzioni tecniche siano innovative, contenga l'invenzione, il virtuosismo o comunque un qualcosa che porta in giro la dimostrazione della bravura del tecnico.
Certo, magari estremizzo un po', ma non dite che non vi riconoscete nella cosa.
E il cliente? al cliente chi ci pensa?
Ecco, appunto, il marketing. Che non c'è.
E allora ci si trova con prodotti che fanno fatica a trovare spazio nel mercato.
Con i tecnici che ti dicono che intanto quelli lì (i clienti) non capiscono niente, che lo sanno loro come va fatto quel prodotto lì.
Con i venditori che ti dicono che il prezzo è troppo caro, che c'è tanta concorrenza e i cinesi, e i rumeni ecc ecc
E invece da cliente ti trovi davanti a cose che ti fanno chiedere "ma han provato ad usarlo?".
Ecco, senza andare poi troppo sul difficile, che a quello pensano gli intellettuali i professori universitari e i colti; per una piccola azienda un paio di azioni di marketing facili facili.
1 - provate ad usare i vostri prodotti e a farli usare da un amico che non ne sa nulla
2 - entrate in un negozio (o a fare una richiesta alla vostra azienda) in forma anonima e provate a comperare il vostro prodotto
Scoprirete un mondo diverso.
E magari comincerete a capire cosa vuol dire marketing.
sabato 5 luglio 2008
misteri
Perché le donne si lamentano del caldo fortissimo e poi si mettono sotto il phon per mezz'ora per tirarsi i capelli?
Siamo sicuri che le infradito siano le calzature più adatte in un posto come Milano?
Come può un uomo di più di 22 anni sano di mente (magari con le gambette secche e bianche e non altissimo) andare in giro orgogliosamente con i pantaloni a pinocchietto?
A parte un certo numero di gay, chi si veste davvero con le cose che ho visto in foto presentate nelle sfilate di moda?
Siamo sicuri che le infradito siano le calzature più adatte in un posto come Milano?
Come può un uomo di più di 22 anni sano di mente (magari con le gambette secche e bianche e non altissimo) andare in giro orgogliosamente con i pantaloni a pinocchietto?
A parte un certo numero di gay, chi si veste davvero con le cose che ho visto in foto presentate nelle sfilate di moda?
venerdì 4 luglio 2008
Le due età
Avvicinandosi ormai ai cinquanta sempre più mi ritrovo a usare un'espressione che mi faceva ridere quando la sentivo usare dai miei genitori: quel ragazzo lì, detto di persone di quaranta e passa anni.
Ma la nonna, ormai ultracentenaria, la usa regolarmente per indicare il figlio, ormai più vicino agli 80 che ai 70.. quindi...
Sempre più in questo periodo mi rendo conto come, con l'avanzare degli anni, si crei una strana divergenza tra l'età che uno sente e quella effettiva che ha.
Da un lato certo non mi sento più un ragazzo, ma se devo essere sincero non mi sento neppure un (quasi) cinquantenne e spesso esce la mia vena goliardica certo poco adatta al mio aspetto fisico.
Da un certo punto di vista quindi ecco che mi ritrovo a cercare un continuo compromesso tra l'età anagrafica e quella "percepita". Pur senza essere un maniaco di queste cose continuo a progettare la mia vita come fossi un ragazzo di vent'anni.
Vedo poi persone poco più vecchie di me (e a volte più giovani) che vivono per la pensione, quello è il loro obiettivo, poter finalmente "far niente".
Questa premessa, visto il tema del blog, è il successivo collegamento all'azienda.
Anche l'azienda deve tenersi giovane ed attiva, a maggior ragione se ha una storia ed è "anziana".
La cosa peggiore che possa capitare ad una azienda è cominciare ad invecchiare, perdere la curiosità e la voglia di progettare il futuro.
Sentirsi pronta per la "pensione" sfruttando quei prodotti cash cow che hanno da tanti anni successo e garantiscono una sopravvivenza dignitosa.
Anche le aziende hanno quindi un problema di due età, quella reale e quella percepita.
Non sono un maniaco dei giovani in azienda, credo che l'esperienza che possono portare persone di una certa età sia impagabile, ma credo che ancora una volta il trucco sia utilizzare correttamente le risorse.
Le persone di esperienza non devono essere un freno per l'innovazione e le nuove idee, i giovani non devono sottovalutare il peso dell'esperienza, visto che la storia si ripete.
E l'azienda nel suo insieme deve sempre tenere conto della necessità di gestire correttamente l'essere giovane "dentro" con l'anzianità della sua storia.
Ma la nonna, ormai ultracentenaria, la usa regolarmente per indicare il figlio, ormai più vicino agli 80 che ai 70.. quindi...
Sempre più in questo periodo mi rendo conto come, con l'avanzare degli anni, si crei una strana divergenza tra l'età che uno sente e quella effettiva che ha.
Da un lato certo non mi sento più un ragazzo, ma se devo essere sincero non mi sento neppure un (quasi) cinquantenne e spesso esce la mia vena goliardica certo poco adatta al mio aspetto fisico.
Da un certo punto di vista quindi ecco che mi ritrovo a cercare un continuo compromesso tra l'età anagrafica e quella "percepita". Pur senza essere un maniaco di queste cose continuo a progettare la mia vita come fossi un ragazzo di vent'anni.
Vedo poi persone poco più vecchie di me (e a volte più giovani) che vivono per la pensione, quello è il loro obiettivo, poter finalmente "far niente".
Questa premessa, visto il tema del blog, è il successivo collegamento all'azienda.
Anche l'azienda deve tenersi giovane ed attiva, a maggior ragione se ha una storia ed è "anziana".
La cosa peggiore che possa capitare ad una azienda è cominciare ad invecchiare, perdere la curiosità e la voglia di progettare il futuro.
Sentirsi pronta per la "pensione" sfruttando quei prodotti cash cow che hanno da tanti anni successo e garantiscono una sopravvivenza dignitosa.
Anche le aziende hanno quindi un problema di due età, quella reale e quella percepita.
Non sono un maniaco dei giovani in azienda, credo che l'esperienza che possono portare persone di una certa età sia impagabile, ma credo che ancora una volta il trucco sia utilizzare correttamente le risorse.
Le persone di esperienza non devono essere un freno per l'innovazione e le nuove idee, i giovani non devono sottovalutare il peso dell'esperienza, visto che la storia si ripete.
E l'azienda nel suo insieme deve sempre tenere conto della necessità di gestire correttamente l'essere giovane "dentro" con l'anzianità della sua storia.
martedì 1 luglio 2008
Hardware & Software
Allora non c'erano i blog, e forse partecipavo a qualche mailing list.
Ma ricordo che quando Tiscali (e fece molto scalpore) superò, come capitalizzazione di borsa, Fiat, ebbi l'impressione che ci fosse qualcosa che non funzionava.
Non era possibile che una start up, pur di grande potenziale, valesse più di una azienda centenaria, che ha in pancia comunque degli immobili, un know how, dei marchi conosciuti a livello mondiale; qualcosa non funzionava.
Era il boom dell'economia di carta, che ancora oggi si trascina.
Quanti miei "colleghi" hanno sostenuto la crescita finanziaria personale con pegni su pegni?
Ad un certo punto pareva che solo gli stupidi continuassero a produrre, a cercare di guadagnare vendendo hardware, sviluppando prodotti, usando la finanza come mezzo per lo sviluppo aziendale e non come fine.
Per non parlare di chi ha cominciato a inserirsi nel vortice immobiliare, debiti su debiti per finanziare acquisizioni di immobili, con la costruzione di castelli di carta basati sul debito.
E quattro stupidi sempre lì con in mano la lima e il cacciavite a cercare di produrre.
Sembrava che gente come Gnutti & la combriccola dei bresciani dovessero diventare i padroni d'Italia. Grandi paginate sui nuovi capitalisti coraggiosi.
E intanto Mediobanca, che perdeva il suo padre padrone, restava in disparte.
E uno intelligente come Colaninno investiva i suoi soldini in una azienda di hardware, con marchio forte.
Quel castello sta miseramente crollando: qualcuno è in galera, altri sulle pagine dei giornali ci finiscono per i guai giudiziari, altri hanno perso molti dei soldi "facili" investiti, altri disperatamente cercano di vendere qualcosa per salvarsi, siamo al punto che in crisi di liquidità, grazie ai castelli che hanno creato, ci sono le banche. Il che se mi permettete è una contraddizione di business.
E noi metalmeccanici di provincia siamo sempre qui, con la nostra lima e il nostro cacciavite a tirar sera cercando di vendere nel mondo i nostri prodotti.
Senza troppi debiti, ricchi un poco di più del 2000, lontani dalle copertine dei giornali, dai giri "giusti" ma padroni delle nostre aziende e con sonni tutto sommato tranquilli (nei canoni di chi fa il nostro mestiere).
In compenso il castello che sta crollando sta uccidendo il mercato interno.
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