lunedì 19 ottobre 2009

Protezionismo


Una delle maggiori attività dell'ultimo periodo, in azienda, è cercare di fronteggiare ogni giorno nuove "regole".

Operiamo in una situazione di mercato libero, grazie al WTO (qualcuno potrebbe dire a causa del).
Come chi mi segue sa noi operiamo a livello mondiale esportando in tantissimi paesi.

Le barriere doganali sono illegali, ma il metodo sempre più utilizzato per frenare le importazioni è quello del cambio regole in corsa.
In corsa perché quando ti cambiano le regole di marchiatura a merce che è già in viaggio diventa complicato assolverle.
Allora passiamo le nostre giornate a fronteggiare le regole che ogni dogana si inventa ogni giorno per cercare di metterti i bastoni tra le ruote.
Dalle fatture rifatte 5 volte perché ogni volta la dichiarazione non va bene, a quelli che ti chiedono la scritta "made in Italy" su tutti i ricambi (compresa la scatola di 500 viti, su ogni vite).
A quelli che ti mandano la dogana italiana a verificare se sei tu il produttore.

Insomma, per fortuna siamo italiani e per noi è normale passare più tempo a fronteggiare burocrazia che a fare business. Ma è una bella rottura di scatole.

Poi i cinesi questo problema non ce l'hanno, loro "made in Italy" sui ricambi copiati ce lo hanno scritto.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Ha mai considerato di trasferire la produzione in Cina?

Saluti,
Anton

Unknown ha detto...

no volevo fare una joint venture in un altro paese ma per il mercato locale.

I cinesi se vai là e fai la fabbrica e gli insegni a produrre dopo poco non clonano solo i prodotti. Anche la fabbrica.

Se le multinazionali invece di lavorarci e insegnargli a far produzione se ne fossero state lontane sarebbero più indietro.

Io credo nella funzione sociale delle aziende. Se trasferisco là la produzione che prospettiva offro ai miei collaboratori?

Anonimo ha detto...

Proposta:
ammettiamo che si voglia in qualche modo condividere e, perchè no, diffondere una cultura liberale nel senso più pieno della parola: diritti dei cittadini, funzionamento delle istituzioni, regole trasparenti per un corretto modo di fare impresa (a proposito di cinesi et similia).
Sarebbe bello che tu che sembri (scusa il dubitativo ma in fin dei conti non è semplice dare giudizi su un essere pur sempre virtuale) una persona seria e con delle profonde convinzioni, provassi a condividere le tue fonti di ispirazione: testi di politica o economia, pensatori del presente o del passato, personaggi di riferimento di attualità o meno..
A me farebbe piacere e penso anche ad altri, forse anche così si dà un contributo a creare delle coscienze critiche che possano diventare classe dirigente del nostro disastrato paese.
Marco

Anonimo ha detto...

La ringrazio della risposta, che ho letto con interesse.

Sí, i cinesi sono intraprendenti.

Se vogliono, prodotti e anche la fabbrica li copiano comunque--anche se si trova dall´altra parte del pianeta. Forse, anzi, una ditta che produce in Cina otterrá più facilmente tutela da parte delle autoritá cinesi in caso di violazione di brevetti, marchi, proprietá intellettuale, ecc.

Al di lá di quelle legali, sarebbero auspicabili anche precauzioni pratiche per ridurre il rischio di clonazione. Ce ne sono di vario tipo.

La sua domanda conclusiva é giusta e fa riflettere. La mia prima considerazione é che c´é una domanda da farsi prima: L´Italia che prospettive offre agli imprenditori e ai dipendenti?

Io sono molto pessimista. Se anche ora l´Italia riesce ad evitare la catastrofe economica e sociale della presente crisi, di un default, dell´uscita dall´euro, di un collasso del sistema bancario... rimane comunque con un sistema economico basato su ditte medio-piccole e posizionate in settori prevalentemente di basso livello--ossia maggiormente esposte alla competizione dei paesi emergenti (poveri). In questa fascia, la competizione é prevalentemente sul prezzo e i margini tendono ad essere vicini allo zero. Ma il debito pubblico poi... chi lo paga?

Chiaramente, la conclusione che ne traggo é che il futuro dell´Italia è molto preoccupante.

Di contro, la crisi presenterebbe l´opportunitá ideale per trasferire la produzione altrove. Si potrebbero infatti acquisire le strutture produttive a prezzi particolarmente favorevoli. Si possono anche assumere dipendenti di talento (che, proprio per via della crisi saranno ancor più fedeli!) molto più facilmente e a stipendi più bassi che durante il boom. Ossia, si può entrare in un momento in cui l´investimento é favorevole ed avere il tempo di organizzarsi. La crisi in Cina probabilmente finirá prima che in Europa e a quel punto si avrá giá esperienza sul mercato locale e la ripresa dell´attivitá economica dovrebbe far salire di nuovo il costo degli stabilimenti. Costi più bassi e giá ammortizzati, costiuirebbero un ulteriore vantaggio competitivo rispetto a nuovi entranti sul mercato.

Le joint venture, secondo me, espongono a rischi molto maggiori rispetto ad operazioni controllate completamente.

Aprire una fabbrica in un altro paese, magari, non comporta necessariamente la chiusura in Italia.

Se fossi un suo collaboratore, di fronte alla prospettiva di aprire in Cina o in un altro paese con prospettive migliori dell´Italia, offrirei di trasferirmi dove apre la fabbrica.

Certo, sono sicuro che qualche altro suo collaboratore sarebbe meno entusiasta!!

L´argomento mi interessa ed ho scritto un messaggio un po´lungo, con considerazioni fatte mentre scrivevo. Non é che volessi convincerla ad andare in Cina.

Saluti,
Anton