martedì 7 marzo 2006

Delocalizzazione o internazionalizzazione

Prendo spunto dai commenti ricevuti su "pagherete caro pagherete tutto".

L'andare all'estero a mio parere ha due modi:
il primo è la delocalizzazione, chiudo un impianto qui e lo metto in un paese a basso costo della mano d'opera. E' adatto secondo me alle società molto grandi e senza proprietario. Presuppone infatti che appena i costi del posto dove ho messo la fabbrica cominciano a salire mi sposti di nuovo. Vedi solito esempio di Nike o Reebok che continuano a spostare le fabbriche (e non dicono dove sono: ufficialmente per evitare le copie, ufficiosamente per i metodi non proprio corretti che usano). Altrimenti se non mi sposto perdo molto del vantaggio competitivo basato unicamente sul costo. Questo è male, secondo me. E' la versione aggiornata dello schiavismo di un tempo. Per questo lo fanno le multinazionali dove spesso non c'è un padrone e se c'è è talmente lontano dai lavoratori da essere un qualcosa di etereo.

La seconda è l'internazionalizzazione, avvicino le mie fabbriche al mercato di sbocco, godendo anche magari di vantaggi economici, ma il significato è fornire un servizio migliore o poter distribuire i prodotti.
Essere in una certa area mi permette ad esempio di fare prodotti che conviene poco trasportare, o poterli più facilmente personalizzare o essere più veloce nella distribuzione e logistica. Questo è bene. Ha una logica industriale e non è un semplice sfruttamento di mano d'opera bisognosa.
Mi permette di entrare in un mercato che sarebbe difficile da affrontare solo con una logica di export.

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